Anthropos

La realtà è un vettore statico

Racconto brevissimo

Questo angolo di cyberspazio mi appartiene. Io sono il solo Signore, Dominatore, Dio. Persino il Caos, divinità suprema cui tutto è soggetto, ne è escluso. Triplici controlli anti-errore, data-drive gemelli e gruppi elettrogeni di emergenza lo esiliano da questo minuscolo reame che reclamo per me solo.
Sono poche manciate di terabyte, in cui dati binari grezzi convivono con interfacce 3-Dent semplificate. Archivio i miei dati sottoforma di filamenti colorati simili ad alghe che si dipartono da una base quadrata perfettamente regolare di centomila chilometri di lato; virtuali, ovviamente. Tra di essi si aggirano i miei programmi, appaiono come delfini e altri animali marini, che nei secoli passati popolavano gli oceani. Nuotano nel nero assoluto, la tenebra più pura che esista; è assenza di tutto, non solo luce, ma anche dati, stringhe pluridimensionali, variabili.
Dove non vi sono informazioni o programmi in esecuzione, ho scelto di vedere il nulla.
A volte proietto un avatar dalle sembianze umane e mi metto a passeggiare sul fondo di questo mare tenebroso. Osservo le mie alghe-dati che si agitano, mentre il mio Koann le intreccia, le allunga, le recide (è uno dei migliori software per la costruzione e gestione di reti neurali adattative su basi dati esistenti. Ce l'ho solo da un paio di mesi, prima non potevo permettermelo). In alto nuotano delfini e megattere.
Questo è il mio regno, i miei poteri qui sono illimitati, sia sullo spazio, che sul tempo. A volte mi diverto a rallentarlo, invertirlo, renderlo discontinuo... solo qui sono completamente libero. Nel mio corpo fisico, invece, mi trovo sempre più a disagio: non lo riconosco, non mi ubbidisce; ogni giorno che passa lo avvicina a una inevitabile distruzione e ogni più piccolo cambiamento che io noti in esso contribuisce a renderci estranei.
Non mi sento solo quando sono qui, quando voglio apro un grande oblò al centro del quadrato base, una finestra sulla Matrice, il cyberspazio globale, e vi proietto i miei programmi di ricerca dati, oppure, a volte, un duplicato del mio avatar, dividendo equamente la mia coscienza tra la grande rete di cui sono un suddito, e il suo minuscolo frammento, di cui sono il Signore.
Le mie alghe-dati sono diventate troppe, troppo lunghe e troppo ingarbugliate. Installerò una espansione di memoria supplementare (ieri ho acquistato un drive Kazuky allo stato solido da dieci terabyte) e parallelamente ristrutturerò lo spazio virtuale. Introducendo una superficie a sezione parabolica potrò accumulare i dati più utili verso il centro, mantenendo l'aspetto marino dell'interfaccia inalterato. Mi metterò subito al lavoro sulla ristrutturazione.
Mi hanno rubato il drive Kazuky. Insieme a tutte le memorie vecchie. La cassetta di sicurezza della banca dati in cui conservo il mio hardware è stata forzata insieme ad altre quattro. Avevano pochi minuti, ne hanno scelte cinque a caso. Tra di esse la mia.
Stavo dormendo quando è successo. Una tartaruga marina rossa mi ha svegliato, tramite il mio avatar, avvertendomi di un calo di potenza nei sistemi di alimentazione dell'hardware (tutti i miei programmi di sicurezza compaiono sull'interfaccia 3-Dent come testuggini). Una manciata di secondi dopo ho visto scomparire nel nulla l'intera sezione nord-ovest. Poi, rapidamente, tutte le altre parti. I ladri si interessavano solo delle memorie: hanno lasciato attiva e intatta l'unità centrale, perciò il mio avatar è rimasto in piedi al centro del nucleo del sistema operativo, nella memoria integrata.
Ho aperto un minuscolo foro-finestra sulla Matrice. Mi sono estruso in essa e ho vagato come un animale tra dati e flussi ormai privi di significato. Non so per quanto tempo, perchè per guadagnare un minuscolo frammento di memoria avevo eliminato l'orologio di sistema. Ho lasciato poi il cyberspazio solo quando il mio corpo sfinito dalla sete e dalla fatica, esaurito l'effetto delle anfetamine, ha richiamato la mia coscienza con delle fitte di dolore intollerabili. Ora osservo il mio deck ormai inutile, cavi e spinotti mi giacciono inerti sulle ginocchia. Il mio microcosmo è distrutto. Perso per sempre. Sono incatenato in questo corpo flaccido e sudato, in una stanzetta sudicia. Neppure questa mi appartiene. E domani sarò ancora qui, questo stupido pianeta continuerà a rotolare e io non potrò farci nulla; e la realtà, l'unica ormai, per me, sarà come un vettore statico.
AleP. - 2008